Sospensione dell’attività imprenditoriale – lavoro irregolare – decreto fiscale

Sospensione Imprenditoriale

Lavoro irregolare, nel decreto fiscale approccio repressivo. Cosa cambia per i datori?

Con il decreto fiscale operativo dal 22 ottobre 2021, il Governo ha messo in opera un piano d’azione che ha modificato alcune norme del caposaldo rappresentato dal TUSL (Testo unico della salute e sicurezza sul lavoro, D. Lgs. n. 81/2008). Norme fondamentali come l’art. 14, contenente le disposizioni sul provvedimento cautelare di sospensione dell’attività imprenditoriale, che è stato riscritto.

Ogni intervento legislativo ha una ratio, qui rinvenuta nella volontà di contrastare le assunzioni irregolari, così garantendo l’integrità psico-fisica dei lavoratori.

Il nuovo art. 14 del D. Lgs. n. 81/2008 – come riscritto dal Capo III (Rafforzamento della disciplina in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro), art. 13 del decreto fiscale n. 146/2021 – inserendo novità sui profili istituzionali della materia prevenzionistica, impone l’adozione del provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale in tutti i casi in cui venga accertata una tra le seguenti situazioni nell’azienda ispezionata:

  • impiego “in nero” in misura pari o superiore al 10% ((in precedenza 20%) del totale dei lavoratori occupati. La nuova aliquota va calcolata sul totale dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro al momento dell’ispezione;
  • violazioni gravi delle norme contenute nell’Allegato I del D. Lgs. n. 81/2008, non più anche “reiterate” (perciò, dal 22 ottobre 2021 il datore di lavoro rischia la sospensione commettendo anche solo per la prima volta una delle violazioni).

E’ ora univoca* (l’Allegato I è stato aggiornato) l’individuazione delle gravi irregolarità presupposto per l’adozione del provvedimento interdittivo.

Quali gli ambiti applicativi?

Soggettivamente, il provvedimento interdittivo è destinato ai datori di lavoro che rivestono la qualifica di imprenditore ai sensi del Codice civile (artt. 2082, 2083).

L’adozione del provvedimento cautelare de quo è, invece, affidata al personale ispettivo dell’INL (la cui competenza viene significativamente estesa a tutti i settori produttivi); al personale delle ASL competenti per territorio, con il limite della accertata presenza sui luoghi di lavoro di gravi violazioni in materia di salute e sicurezza, non anche della presenza di lavoratori irregolari; al Comando provinciale dei Vigili del Fuoco, con competenza esclusiva e limitata alle violazioni in materia di prevenzione incendi.

In particolare, la competenza dell’INL in ambito prevenzionistico era, “ante decreto”, semplicemente concorrente, in materia di: attività nel settore delle costruzioni edili o di genio civile; lavori mediante cassoni in aria compressa e lavori subacquei; attività lavorative comportanti rischi elevati.

Sull’efficacia spaziale, l’Esecutivo ha circoscritto gli effetti del provvedimento alla parte dell’attività imprenditoriale interessata dalla violazione, che sia una sua unità produttiva o un cantiere, ecc.

Ma – altro elemento di assoluta novità – la sospensione potrà essere ulteriormente limitata: pur potendo proseguire l’attività, i lavoratori individualmente coinvolti nella mancata formazione (e addestramento) e nella violazione e mancata fornitura del dispositivo di protezione individuale contro le cadute dall’alto, dovranno essere sospesi dal lavoro.

E’, vieppiù, noto che l’approvazione del decreto fiscale ha scongiurato l’adozione di provvedimenti diretti al patrimonio o alla posizione previdenziale del lavoratore, che quindi mantiene intatti i suoi diritti.

L’efficacia temporale segue due corsie: se l’adozione deriva dall’ipotesi di lavoro irregolare, il provvedimento decorre dalle ore 12:00 del giorno lavorativo successivo (vale a dire il giorno di apertura dell’ufficio che ha emanato il provvedimento) a quello in cui è stato adottato; se, invece, l’adozione proviene da violazioni di norme prevenzionistiche, l’efficacia del provvedimento sarà immediata.

Durante il periodo di sospensione dell’attività è fatto divieto all’impresa di contrattare con la Pubblica amministrazione.

Quali le sanzioni?

L’intervento del Legislatore ha rimodulato anche le ammende pecuniarie, per cui dal 22 ottobre 2021 chi non osserva il provvedimento interdittivo viene punito con:

l’arresto fino a sei mesi, se sospeso per violazioni prevenzionistiche;

l’arresto da tre a sei mesi o la multa da 2.500 a 6.400 euro, se sospeso per lavoro irregolare.

L’importo dovuto viene raddoppiato ove nei cinque anni precedenti l’impresa abbia già subìto un provvedimento di sospensione (resta salva anche l’applicazione di sanzioni penali, civili ed amministrative).

La ripresa dell’attività produttiva seguirà necessariamente, oltreché il pagamento della somma di cui sopra, il ripristino delle regolari condizioni di lavoro.

 

Nota *

tabella

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Il decreto fiscale – le novità in materia di lavoro

È stato pubblicato in G.U. n. 252/2021 il D.L. 146 del 21 ottobre 2021, c.d. Decreto Fiscale, in vigore dal 22 ottobre 2021, recante importanti misure, sia fiscali e finanziarie, sia a tutela del lavoro, della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, anche tenuto conto degli effetti conseguenti all’emergenza epidemiologica da COVID-19. (continua…)

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Evolution Skills – Corsi gratuiti in partenza a novembre

 

 Corsi in partenza Evolution Skills

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LE ASSENZE NEL 2021

Assente

Le assenze nel 2021, i profili retributivi e contributivi e i riflessi delle (mancate) tutele

Oggi che anche nell’ordinamento si intrufola il virus da Covid-19 con interventi emergenziali che scuotono il sistema normativo ad ogni “batter di ciglia”, l’assenza dal lavoro e i suoi riflessi giocano un diverso ruolo.

La quarantena o il rischio di contagio giustificano l’assenza dal lavoro?

Dal decreto c.d. “Cura Italia” – che è uno dei numerosi provvedimenti d’urgenza del periodo pandemico – apprendiamo che è “assente giustificato” il dipendente che non si presenti a lavoro perché costretto alla quarantena obbligatoria. In questo caso, azienda e dipendente si atterranno alle condizioni contrattuali e agli articoli di legge applicabili per la malattia del lavoratore, quando sono garantite le tutele previdenziali e la conservazione del posto di lavoro.

Altra ipotesi è quando il lavoratore non si presenta in azienda perché, per ragioni di sicurezza, l’azienda ha dovuto chiudere: se non percorribile la formula del c.d. “lavoro agile” (più familiarmente “smart working”), l’assenza gli dà comunque diritto alla retribuzione, riconosciuta in via del tutto precauzionale anche se egli sceglie (è il caso di quando è esposto al rischio contagio) di restare in casa in quarantena “volontaria”.

Il Legislatore intende, pertanto, paragonare al lavoratore in malattia chi è costretto al periodo di quarantena, garantendo la sicurezza di questi e dei colleghi ed escludendo per essi sanzioni fino al caso estremo del licenziamento: sono situazioni che giustificano l’assenza.

Poiché tuttavia l’impianto contrattuale, normativo, giuridico possono, sospesa la prestazione, ridurre o sospendere di conseguenza l’obbligo retributivo del datore di lavoro, in via generale la certezza su quali principi tutelare risiede essenzialmente in quelli previsti dalla Costituzione: lo status di lavoratore, la tutela dei più deboli, degli ammalati, degli infortunati, dei portatori di handicap…

In altre parole, è pacifico che il dipendente abbia diritto ad assentarsi dal lavoro per breve o lungo tempo; altrettanto che il diritto gli venga riconosciuto secondo termini e condizioni regolati da contratti collettivi (CCNL) e leggi. E che il verificarsi della violazione comporti sanzioni.

Chi, assentandosi dal lavoro, non viola CCNL e legge? Quali sono i permessi e le assenze giustificati?

Eccoli elencati:

  • ROL (le riduzioni di orario di lavoro disciplinate da alcuni contratti collettivi);
  • permessi per lutto (3 giorni in un anno, retribuiti ed utilizzabili entro 7 giorni dalla morte di un familiare/parente entro il 2° grado);
  • i permessi ammessi dalla legge 104/92;
  • permessi per gli invalidi e per grave infermità del coniuge, convivente riconosciuto o di parenti entro il 2° grado;
  • permessi per allattamento (o controlli prenatali), che possono essere goduti in giorni o ore;
  • permessi ex festività (previsti da alcuni contratti collettivi);
  • permessi per visite mediche o donazione del sangue;
  • permessi per motivi personali o di salute;
  • permessi per studio, esami, concorsi;
  • assenze per malattia;
  • assenze per infortunio;
  • assenze per maternità.

In più, le assenze che possono ricoprire un periodo di tempo più lungo come i congedi matrimoniali o quelli richiesti per ricoprire cariche pubbliche elettive.

Nella macrocategoria esibita, una distinzione è necessaria tra permessi retribuiti e permessi non retribuiti.

I primi danno diritto ad assentarsi dal lavoro, permanendo retribuzione spettante e impiego nelle modalità e nei termini stabiliti dal CCNL di categoria e dalla legge.

I permessi non retribuiti ammessi dai CCNL e dalla legge, invece, conservano l’impiego ma non la retribuzione durante il periodo di assenza.

Una rapida quanto esaustiva ricognizione sugli “istituti” della malattia e della maternità per un quadro approssimativo ma di riferimento circa le tutele apprestate ai lavoratori, può suggerire un termine di paragone con altri “istituti” e con le tutele (e mancate tutele) in relazione alle nuove previsioni del d. lgs n. 127/2021.

Qual è il trattamento retributivo dell’assenza per malattia?

Durante l’assenza per malattia, al lavoratore dipendente del settore privato viene corrisposta l’indennità economica di malattia in sostituzione della retribuzione (chiaramente, per il periodo stabilito dalla legge e dai contratti collettivi).

Il diritto spetta dal giorno in cui ha inizio l’attività lavorativa.

L’indennità è erogata dal datore di lavoro, che l’anticipa per conto dell’lnps.

La grande parte dei contratti prevede una integrazione economica, sotto forma di retribuzione, da parte del datore di lavoro.

Misura dell’indennità a carico dell’Inps

L’indennità da parte dell’Inps spetta dal 4° giorno di malattia, che deve essere calcolato dalla data di inizio della malattia dichiarata dal lavoratore e riportata nel certificato medico, e viene erogata dall’lnps in queste misure: 50% della retribuzione media globale giornaliera percepita dal lavoratore nel periodo mensile scaduto e immediatamente precedente l’inizio della malattia, per i primi 20 giorni; 66,66% (2/3) della retribuzione media giornaliera di cui sopra, dal 21° giorno.

I primi 3 giorni di malattia non sono indennizzabili, tranne nel caso di ricaduta della stessa malattia verificatasi entro 30 giorni o quando il contratto preveda l’indennizzo di tale periodo a carico del datore di lavoro.

Ai lavoratori disoccupati o sospesi, in caso di malattia insorta durante lo stato di disoccupazione o sospensione, l’indennità di malattia viene corrisposta in misura pari ai 2/3 delle misure prima indicate, sempreché la malattia insorga entro i 60 giorni dalla cessazione o sospensione del rapporto di lavoro.

Durante il ricovero in luoghi di cura, l’indennità giornaliera è corrisposta in misura pari ai 2/5 delle misure previste, se il lavoratore non ha familiari a carico.

Fuorché nei casi di erogazione diretta da parte dell’Inps, l’indennità di regola è anticipata dai datori di lavoro; la più parte dei contratti di lavoro prevede, a carico degli stessi, una integrazione della indennità di malattia sotto forma di retribuzione.

Periodo massimo assistibile

Per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato, il trattamento economico di malattia viene erogato per un periodo massimo di giorni 180 complessivi in un anno solare. In caso di cessazione o sospensione del rapporto di lavoro la “protezione assicurativa” scatta se l’evento interviene nei 60 giorni successivi.

Per i lavoratori con contratto a tempo determinato, fermo restando il periodo massimo indennizzabile di 180 giorni che non può essere superato, l’indennità di malattia viene corrisposta per un numero di giornate pari a quelle lavorate negli ultimi 12 mesi precedenti la malattia. Se il lavoratore, nei 12 mesi precedenti, non può far valere periodi superiori a 30 giorni, l’indennità di malattia è concessa per un periodo massimo di 30 giorni nell’anno solare.

Non si dà luogo a trattamenti economici e indennità di malattia per i periodi successivi alla cessazione del rapporto di lavoro a tempo determinato.

Qual è il trattamento retributivo dell’assenza per maternità?

Le lavoratrici in congedo di maternità hanno diritto ad una indennità giornaliera corrispondente all’80% della retribuzione media globale giornaliera, percepita nel mese immediatamente precedente l’astensione dal lavoro, per tutto il periodo di congedo di maternità, compresi i periodi di congedo di maternità anticipata, autorizzati dall’ASL o dal Servizio ispettivo del Ministero del lavoro. Il calcolo si applica anche alle lavoratrici domestiche, su una retribuzione convenzionale determinata anno per anno dall’INPS, e alle lavoratrici a domicilio.

Numerosi contratti collettivi prevedono, a carico del datore, un’integrazione dell’indennità fino a raggiungere la retribuzione in costanza di rapporto di lavoro.

Se sussiste il diritto, alla lavoratrice o al lavoratore viene corrisposto anche l’assegno per il nucleo familiare.

Infine, è riconosciuta d’ufficio la piena contribuzione figurativa per tutta la durata delle prestazioni, valida ai fini del diritto e della misura delle prestazioni pensionistiche.

L’assente ingiustificato ante e post decreto

A sé il discorso sulle assenze ingiustificate, con la specifica che l’assenza dal lavoro per circostanze e fatti imprevedibili e/o imprevisti può non comportare provvedimenti sanzionatori o licenziamento. In questi casi, l’assenza sarà giustificata quando il lavoratore dimostrerà che non è dipesa dalla sua volontà.

Accolta questa peculiarità, in via generale ogni assenza ingiustificata risponde, per l’ordinamento, ad illecito disciplinare. Segue il procedimento avviato dal datore, che non è facoltativo ma obbligatorio (Statuto dei Lavoratori). Infine, la comunicazione (parimenti obbligatoria) dell’esito con eventuale irrogazione di sanzione disciplinare.

Dall’entrata in vigore del d.lgs n. 127/2021 più sopra richiamato, lo “status” (per così dire) del lavoratore cambia; se è privo di green pass è «considerato assente ingiustificato». Sotto il profilo delle conseguenze, per il periodo di assenza, il lavoratore non percepisce retribuzione, «né altro compenso o emolumento», sin dal primo giorno in cui è inibito l’accesso al luogo di lavoro per mancanza di certificato verde.

La non retribuzione è, a questo punto, una conseguenza automatica dell’assenza ingiustificata; che, fino alla presentazione del certificato (in mancanza, fino al 31 dicembre 2021 che è data di cessazione dell’emergenza), non ha conseguenze disciplinari e comporta il diritto alla conservazione del rapporto di lavoro. Non si verificano, cioè, le conseguenze che di norma (anche dai contratti collettivi) vengono ricondotte all’assenza ingiustificata, ovvero il licenziamento al protrarsi dell’assenza oltre il numero di giorni prefissato.

In conclusione, tornando alla quarantena, in un primo momento  è stato escluso (per mancanza di risorse) il riconoscimento della tutela previdenziale per gli eventi riferiti al 2021 successivamente, con la pubblicazione del decreto fiscale n. 146/21 ne viene previsto il rifinanziamento.  In caso di malattia conclamata da COVID-19, è comunque riconosciuta la tutela della malattia.

Con riguardo, però, ai lavoratori cosiddetti “fragili”, la cui assenza dal lavoro è stata equiparata a ricovero ospedaliero – con la conseguente erogazione della prestazione economica e il correlato accredito della contribuzione figurativa, per gli assicurati aventi diritto alla tutela della malattia del settore privato, entro i limiti del periodo massimo assistibile previsto dalla normativa vigente per la specifica qualifica e il settore lavorativo di appartenenza – per l’anno 2021 questa tutela verrà riconosciuta fino al 31 dicembre 2021 (articolo 2-ter del dl n. 111/2021).

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Profili contrattuali del lavoro sportivo. Il lavoratore professionista

 

Lavoratore Sportivo Professionista
La materia del lavoro sportivo è regolata dal decreto legislativo n. 36 del 28 febbraio 2021(GU n. 67/2021), che dà attuazione all’articolo 5 della legge n. 86/2019.

Talune previsioni (la più parte) saranno applicate dal 1° gennaio 2022, altre esattamente dall’anno seguente.

Il Titolo V è rubricato “Disposizioni in materia di lavoro sportivo”; su esso il contributo intende soffermarsi.

Prima dell’attuale intervento normativo, il settore è stato disciplinato dalla legge n. 91/1981 – “Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti” – cui si deve la qualificazione normativa della prestazione sportiva come “lavoro”.

A onor del vero, al decreto di quest’anno è ascrivibile una limitata portata innovativa, al punto che le poche novità introdotte dal legislatore delegato non incidono sulla natura speciale che già la legge originaria assegnava al settore rispetto alla disciplina di diritto comune del mondo del lavoro, rinvenibile negli articoli del Codice civile e nelle leggi sui rapporti di lavoro.

Chi è definibile lavoratore sportivo?

Secondo l’art. 25, c. 1, il lavoratore sportivo è l’atleta, l’allenatore, l’istruttore, il direttore tecnico, il direttore sportivo, il preparatore atletico e il direttore di gara che esercitano attività sportiva verso un corrispettivo, prescindendo dal settore (professionistico o dilettantistico).

Qui, ad esempio, sta uno degli aspetti innovativi più rilevanti che il decreto legislativo n. 36/2021 ha introdotto rispetto alla legge n. 91/81: questa regolava il rapporto di lavoro dello sportivo professionista qualificandolo tale quando svolgeva attività a titolo oneroso e in modo continuativo, nell’ambito di discipline intese come professionistiche dalle Federazioni Sportive Nazionali (F.S.N.). A fronte di tale definizione, venivano esclusi dall’applicazione del disposto l’amatore che sporadicamente svolgeva l’attività a titolo oneroso in una disciplina professionistica e ogni altra attività svolta nell’ambito di discipline sportive dilettantistiche.

Nel c. 2 dell’art. 25 si concentra la specifica secondo cui l’attività a titolo oneroso può essere svolta sulla base di un rapporto di lavoro subordinato o autonomo (anche nella forma della collaborazione coordinata continuativa) o sulla base di una collaborazione occasionale (c. 4).

Il c. 3 verte sulla certificazione dei contratti di lavoro (legge n. 276/2003) con l’intento di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei contratti stessi, attestandone la conformità alle norme. La disposizione effettua il rinvio agli accordi collettivi stipulati dalle Federazioni Sportive Nazionali, dalle discipline sportive associate e dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, sul piano nazionale, delle categorie di lavoratori sportivi interessate, per l’individuazione di indici delle fattispecie utili ai fini del procedimento di certificazione dei contratti di lavoro; in mancanza, saranno utilizzati indici individuati con apposito DPCM.

Il decreto fa comunque salva l’applicazione dell’art. 2, c. 1, del dlgs n. 81/2015, che vuole applicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato ai rapporti di collaborazione che si concretizzano unicamente in prestazioni di lavoro personali, continuative, le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente.

Da ultimo, il c. 5 stabilisce che, per quanto compatibili e per quanto non diversamente disciplinato dal decreto, si applicano le disposizioni sui rapporti di lavoro nell’impresa, incluse quelle di carattere previdenziale e tributario.

Contrattualmente, l’art. 26 del decreto fa spazio a regole generali sul rapporto di lavoro sportivo subordinato, senza effettuare distinguo tra settore professionistico e dilettantistico.

Ad esso non sono applicabili gli artt. 4, 5, 13, 18 dello Statuto dei lavoratori. Neppure le norme sui licenziamenti individuali di cui agli artt. 1, 2, 3, 5, 6, 7, 8 della legge n. 604/1966 e 2, 4, 5 della legge n. 108/1990.

Infine, non è applicabile l’impianto del dlgs n. 23/2015 circa il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti.

Dal che ricaviamo che continua a non applicarsi al lavoro subordinato sportivo la (pur ostica) normativa sui licenziamenti.

La sopravvenienza della legge del ‘90 alla legge sul lavoro sportivo dell’81, sembra abbia comportato l’estensione al lavoro sportivo della tutela reale prevista contro il licenziamento discriminatorio, al pari di tutti gli altri lavoratori subordinati, quindi anche la possibilità del reintegro sul posto di lavoro. Ma è un orientamento, non il frutto di pronunce. Una soluzione che, tuttavia, può non conciliarsi con l’espressa esclusione dell’applicazione al lavoro sportivo dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, riprodotta nel decreto legislativo n. 36/2021.

In definitiva, la specialità rinvenibile nel lavoro sportivo che ha determinato l’inapplicabilità delle norme in materia di licenziamento è plausibile debba valere per l’ipotesi del licenziamento discriminatorio, al quale può far seguito la sola richiesta di risarcimento dei danni (art. 8 della legge 604/1966).

D’altra parte, la soluzione opposta – della non estensibilità al lavoro sportivo della tutela contro il licenziamento discriminatorio – urterebbe contro la esplicita dichiarazione di non applicabilità dell’art. 18 e della tutela reale attraverso la reintegrazione nel posto di lavoro che esso assicura.

Passando oltre, il decreto del 2021 conferma l’inapplicabilità dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori in materia di sanzioni disciplinari, con riguardo a quelle irrogate dalle Federazioni Sportive Nazionali, dalle discipline sportive associate, dagli enti di promozione sportiva. Tale norma è applicabile solo alle sanzioni disposte dagli enti sportivi per violazione degli obblighi discendenti dal contratto di lavoro.

Il rapporto di lavoro tra la società (o associazione) sportiva e lo sportivo professionista può essere a termine, per un periodo non superiore a cinque anni, ma può essere rinnovato come anche ceduto prima della scadenza, se l’altra parte vi consente e con le modalità fissate dalle F.S.N.

Al contratto di lavoro sportivo subordinato non si applicano (art. 26, c. 2) le norme sul lavoro a tempo determinato (dlgs n. 81/2015).

Ancora: nel contratto (questa è una conferma delle prime norme in materia), non possono essere previste clausole di non concorrenza o limitative della libertà professionale dello sportivo.

Il lavoro sportivo può essere svolto in collaborazione coordinata e continuativa (art.  409, c.1, n. 3, del c.p.c.) ma è fatta salva l’applicazione dell’art. 2, c. 1, del decreto legislativo 81/2015, per cui se esso si concretizza in prestazione di lavoro prevalentemente personale, continuativo, con modalità di esecuzione organizzate dal solo committente, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.

Dal 1° luglio 2022 sarà abrogato l’art. 2, c. 2, l. d), del decreto legislativo 81/2015, che non riconosce la sussistenza del lavoro subordinato alle collaborazioni rese ai fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle Federazioni Sportive Nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I.

In luogo, il c. 4 dell’art. 25 consente che l’attività di lavoro sportivo sia oggetto di prestazioni occasionali quando le stesse danno luogo, nel corso di un anno civile:

  1. a) per ciascun prestatore, con riferimento alla totalità degli utilizzatori, a compensi di importo non superiore a 5.000 euro;
  2. b) per ciascun utilizzatore, con riferimento alla totalità dei prestatori, a compensi di importo non superiore a 5.000 euro;
  3. c) per le prestazioni complessivamente rese da ogni prestatore in favore del medesimo utilizzatore, a compensi di importo non superiore a 2.500 euro.

Il rapporto di lavoro nel settore professionistico

Come la vecchia norma, relativamente all’attività prestata dall’atleta a titolo oneroso, anche la nuova individua in via generale la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato per il lavoro prestato dall’atleta come attività principale o prevalente, in modo continuativo, nei settori professionistici (art. 27, 2°comma).

Schematicamente, tre situazioni previste dal 3° comma dell’art. 27 configurano l’attività sportiva prestata dall’atleta come lavoro autonomo:

  • quando l’attività richiesta si svolge nell’ambito di una singola manifestazione sportiva o più manifestazioni ma tra loro collegate in un breve periodo di tempo;
  • se il contratto non prevede vincoli circa la partecipazione a sedute di preparazione o allenamento;
  • se la prestazione resa, pur avendo carattere continuativo, non superi complessivamente otto ore in una settimana o cinque giorni in un mese o trenta giorni in un anno.

Concludendo l’analisi delle novità dettate dall’attuale decreto, è bene soffermarsi sulla circostanza legislativa che il rapporto di lavoro nei settori professionistici si costituisce con assunzione diretta e stipula di un contratto che richiede la forma scritta, pena la nullità (art. 27, c.4), e dev’essere redatto secondo uno schema tipo predisposto dai soggetti chiamati alla stipula degli Accordi Collettivi delle categorie di lavoratori interessate, che non può essere derogato in pejus.

Roberto Nesti

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