LE ASSENZE NEL 2021

Assente

Le assenze nel 2021, i profili retributivi e contributivi e i riflessi delle (mancate) tutele

Oggi che anche nell’ordinamento si intrufola il virus da Covid-19 con interventi emergenziali che scuotono il sistema normativo ad ogni “batter di ciglia”, l’assenza dal lavoro e i suoi riflessi giocano un diverso ruolo.

La quarantena o il rischio di contagio giustificano l’assenza dal lavoro?

Dal decreto c.d. “Cura Italia” – che è uno dei numerosi provvedimenti d’urgenza del periodo pandemico – apprendiamo che è “assente giustificato” il dipendente che non si presenti a lavoro perché costretto alla quarantena obbligatoria. In questo caso, azienda e dipendente si atterranno alle condizioni contrattuali e agli articoli di legge applicabili per la malattia del lavoratore, quando sono garantite le tutele previdenziali e la conservazione del posto di lavoro.

Altra ipotesi è quando il lavoratore non si presenta in azienda perché, per ragioni di sicurezza, l’azienda ha dovuto chiudere: se non percorribile la formula del c.d. “lavoro agile” (più familiarmente “smart working”), l’assenza gli dà comunque diritto alla retribuzione, riconosciuta in via del tutto precauzionale anche se egli sceglie (è il caso di quando è esposto al rischio contagio) di restare in casa in quarantena “volontaria”.

Il Legislatore intende, pertanto, paragonare al lavoratore in malattia chi è costretto al periodo di quarantena, garantendo la sicurezza di questi e dei colleghi ed escludendo per essi sanzioni fino al caso estremo del licenziamento: sono situazioni che giustificano l’assenza.

Poiché tuttavia l’impianto contrattuale, normativo, giuridico possono, sospesa la prestazione, ridurre o sospendere di conseguenza l’obbligo retributivo del datore di lavoro, in via generale la certezza su quali principi tutelare risiede essenzialmente in quelli previsti dalla Costituzione: lo status di lavoratore, la tutela dei più deboli, degli ammalati, degli infortunati, dei portatori di handicap…

In altre parole, è pacifico che il dipendente abbia diritto ad assentarsi dal lavoro per breve o lungo tempo; altrettanto che il diritto gli venga riconosciuto secondo termini e condizioni regolati da contratti collettivi (CCNL) e leggi. E che il verificarsi della violazione comporti sanzioni.

Chi, assentandosi dal lavoro, non viola CCNL e legge? Quali sono i permessi e le assenze giustificati?

Eccoli elencati:

  • ROL (le riduzioni di orario di lavoro disciplinate da alcuni contratti collettivi);
  • permessi per lutto (3 giorni in un anno, retribuiti ed utilizzabili entro 7 giorni dalla morte di un familiare/parente entro il 2° grado);
  • i permessi ammessi dalla legge 104/92;
  • permessi per gli invalidi e per grave infermità del coniuge, convivente riconosciuto o di parenti entro il 2° grado;
  • permessi per allattamento (o controlli prenatali), che possono essere goduti in giorni o ore;
  • permessi ex festività (previsti da alcuni contratti collettivi);
  • permessi per visite mediche o donazione del sangue;
  • permessi per motivi personali o di salute;
  • permessi per studio, esami, concorsi;
  • assenze per malattia;
  • assenze per infortunio;
  • assenze per maternità.

In più, le assenze che possono ricoprire un periodo di tempo più lungo come i congedi matrimoniali o quelli richiesti per ricoprire cariche pubbliche elettive.

Nella macrocategoria esibita, una distinzione è necessaria tra permessi retribuiti e permessi non retribuiti.

I primi danno diritto ad assentarsi dal lavoro, permanendo retribuzione spettante e impiego nelle modalità e nei termini stabiliti dal CCNL di categoria e dalla legge.

I permessi non retribuiti ammessi dai CCNL e dalla legge, invece, conservano l’impiego ma non la retribuzione durante il periodo di assenza.

Una rapida quanto esaustiva ricognizione sugli “istituti” della malattia e della maternità per un quadro approssimativo ma di riferimento circa le tutele apprestate ai lavoratori, può suggerire un termine di paragone con altri “istituti” e con le tutele (e mancate tutele) in relazione alle nuove previsioni del d. lgs n. 127/2021.

Qual è il trattamento retributivo dell’assenza per malattia?

Durante l’assenza per malattia, al lavoratore dipendente del settore privato viene corrisposta l’indennità economica di malattia in sostituzione della retribuzione (chiaramente, per il periodo stabilito dalla legge e dai contratti collettivi).

Il diritto spetta dal giorno in cui ha inizio l’attività lavorativa.

L’indennità è erogata dal datore di lavoro, che l’anticipa per conto dell’lnps.

La grande parte dei contratti prevede una integrazione economica, sotto forma di retribuzione, da parte del datore di lavoro.

Misura dell’indennità a carico dell’Inps

L’indennità da parte dell’Inps spetta dal 4° giorno di malattia, che deve essere calcolato dalla data di inizio della malattia dichiarata dal lavoratore e riportata nel certificato medico, e viene erogata dall’lnps in queste misure: 50% della retribuzione media globale giornaliera percepita dal lavoratore nel periodo mensile scaduto e immediatamente precedente l’inizio della malattia, per i primi 20 giorni; 66,66% (2/3) della retribuzione media giornaliera di cui sopra, dal 21° giorno.

I primi 3 giorni di malattia non sono indennizzabili, tranne nel caso di ricaduta della stessa malattia verificatasi entro 30 giorni o quando il contratto preveda l’indennizzo di tale periodo a carico del datore di lavoro.

Ai lavoratori disoccupati o sospesi, in caso di malattia insorta durante lo stato di disoccupazione o sospensione, l’indennità di malattia viene corrisposta in misura pari ai 2/3 delle misure prima indicate, sempreché la malattia insorga entro i 60 giorni dalla cessazione o sospensione del rapporto di lavoro.

Durante il ricovero in luoghi di cura, l’indennità giornaliera è corrisposta in misura pari ai 2/5 delle misure previste, se il lavoratore non ha familiari a carico.

Fuorché nei casi di erogazione diretta da parte dell’Inps, l’indennità di regola è anticipata dai datori di lavoro; la più parte dei contratti di lavoro prevede, a carico degli stessi, una integrazione della indennità di malattia sotto forma di retribuzione.

Periodo massimo assistibile

Per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato, il trattamento economico di malattia viene erogato per un periodo massimo di giorni 180 complessivi in un anno solare. In caso di cessazione o sospensione del rapporto di lavoro la “protezione assicurativa” scatta se l’evento interviene nei 60 giorni successivi.

Per i lavoratori con contratto a tempo determinato, fermo restando il periodo massimo indennizzabile di 180 giorni che non può essere superato, l’indennità di malattia viene corrisposta per un numero di giornate pari a quelle lavorate negli ultimi 12 mesi precedenti la malattia. Se il lavoratore, nei 12 mesi precedenti, non può far valere periodi superiori a 30 giorni, l’indennità di malattia è concessa per un periodo massimo di 30 giorni nell’anno solare.

Non si dà luogo a trattamenti economici e indennità di malattia per i periodi successivi alla cessazione del rapporto di lavoro a tempo determinato.

Qual è il trattamento retributivo dell’assenza per maternità?

Le lavoratrici in congedo di maternità hanno diritto ad una indennità giornaliera corrispondente all’80% della retribuzione media globale giornaliera, percepita nel mese immediatamente precedente l’astensione dal lavoro, per tutto il periodo di congedo di maternità, compresi i periodi di congedo di maternità anticipata, autorizzati dall’ASL o dal Servizio ispettivo del Ministero del lavoro. Il calcolo si applica anche alle lavoratrici domestiche, su una retribuzione convenzionale determinata anno per anno dall’INPS, e alle lavoratrici a domicilio.

Numerosi contratti collettivi prevedono, a carico del datore, un’integrazione dell’indennità fino a raggiungere la retribuzione in costanza di rapporto di lavoro.

Se sussiste il diritto, alla lavoratrice o al lavoratore viene corrisposto anche l’assegno per il nucleo familiare.

Infine, è riconosciuta d’ufficio la piena contribuzione figurativa per tutta la durata delle prestazioni, valida ai fini del diritto e della misura delle prestazioni pensionistiche.

L’assente ingiustificato ante e post decreto

A sé il discorso sulle assenze ingiustificate, con la specifica che l’assenza dal lavoro per circostanze e fatti imprevedibili e/o imprevisti può non comportare provvedimenti sanzionatori o licenziamento. In questi casi, l’assenza sarà giustificata quando il lavoratore dimostrerà che non è dipesa dalla sua volontà.

Accolta questa peculiarità, in via generale ogni assenza ingiustificata risponde, per l’ordinamento, ad illecito disciplinare. Segue il procedimento avviato dal datore, che non è facoltativo ma obbligatorio (Statuto dei Lavoratori). Infine, la comunicazione (parimenti obbligatoria) dell’esito con eventuale irrogazione di sanzione disciplinare.

Dall’entrata in vigore del d.lgs n. 127/2021 più sopra richiamato, lo “status” (per così dire) del lavoratore cambia; se è privo di green pass è «considerato assente ingiustificato». Sotto il profilo delle conseguenze, per il periodo di assenza, il lavoratore non percepisce retribuzione, «né altro compenso o emolumento», sin dal primo giorno in cui è inibito l’accesso al luogo di lavoro per mancanza di certificato verde.

La non retribuzione è, a questo punto, una conseguenza automatica dell’assenza ingiustificata; che, fino alla presentazione del certificato (in mancanza, fino al 31 dicembre 2021 che è data di cessazione dell’emergenza), non ha conseguenze disciplinari e comporta il diritto alla conservazione del rapporto di lavoro. Non si verificano, cioè, le conseguenze che di norma (anche dai contratti collettivi) vengono ricondotte all’assenza ingiustificata, ovvero il licenziamento al protrarsi dell’assenza oltre il numero di giorni prefissato.

In conclusione, tornando alla quarantena, in un primo momento  è stato escluso (per mancanza di risorse) il riconoscimento della tutela previdenziale per gli eventi riferiti al 2021 successivamente, con la pubblicazione del decreto fiscale n. 146/21 ne viene previsto il rifinanziamento.  In caso di malattia conclamata da COVID-19, è comunque riconosciuta la tutela della malattia.

Con riguardo, però, ai lavoratori cosiddetti “fragili”, la cui assenza dal lavoro è stata equiparata a ricovero ospedaliero – con la conseguente erogazione della prestazione economica e il correlato accredito della contribuzione figurativa, per gli assicurati aventi diritto alla tutela della malattia del settore privato, entro i limiti del periodo massimo assistibile previsto dalla normativa vigente per la specifica qualifica e il settore lavorativo di appartenenza – per l’anno 2021 questa tutela verrà riconosciuta fino al 31 dicembre 2021 (articolo 2-ter del dl n. 111/2021).

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Profili contrattuali del lavoro sportivo. Il lavoratore professionista

 

Lavoratore Sportivo Professionista
La materia del lavoro sportivo è regolata dal decreto legislativo n. 36 del 28 febbraio 2021(GU n. 67/2021), che dà attuazione all’articolo 5 della legge n. 86/2019.

Talune previsioni (la più parte) saranno applicate dal 1° gennaio 2022, altre esattamente dall’anno seguente.

Il Titolo V è rubricato “Disposizioni in materia di lavoro sportivo”; su esso il contributo intende soffermarsi.

Prima dell’attuale intervento normativo, il settore è stato disciplinato dalla legge n. 91/1981 – “Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti” – cui si deve la qualificazione normativa della prestazione sportiva come “lavoro”.

A onor del vero, al decreto di quest’anno è ascrivibile una limitata portata innovativa, al punto che le poche novità introdotte dal legislatore delegato non incidono sulla natura speciale che già la legge originaria assegnava al settore rispetto alla disciplina di diritto comune del mondo del lavoro, rinvenibile negli articoli del Codice civile e nelle leggi sui rapporti di lavoro.

Chi è definibile lavoratore sportivo?

Secondo l’art. 25, c. 1, il lavoratore sportivo è l’atleta, l’allenatore, l’istruttore, il direttore tecnico, il direttore sportivo, il preparatore atletico e il direttore di gara che esercitano attività sportiva verso un corrispettivo, prescindendo dal settore (professionistico o dilettantistico).

Qui, ad esempio, sta uno degli aspetti innovativi più rilevanti che il decreto legislativo n. 36/2021 ha introdotto rispetto alla legge n. 91/81: questa regolava il rapporto di lavoro dello sportivo professionista qualificandolo tale quando svolgeva attività a titolo oneroso e in modo continuativo, nell’ambito di discipline intese come professionistiche dalle Federazioni Sportive Nazionali (F.S.N.). A fronte di tale definizione, venivano esclusi dall’applicazione del disposto l’amatore che sporadicamente svolgeva l’attività a titolo oneroso in una disciplina professionistica e ogni altra attività svolta nell’ambito di discipline sportive dilettantistiche.

Nel c. 2 dell’art. 25 si concentra la specifica secondo cui l’attività a titolo oneroso può essere svolta sulla base di un rapporto di lavoro subordinato o autonomo (anche nella forma della collaborazione coordinata continuativa) o sulla base di una collaborazione occasionale (c. 4).

Il c. 3 verte sulla certificazione dei contratti di lavoro (legge n. 276/2003) con l’intento di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei contratti stessi, attestandone la conformità alle norme. La disposizione effettua il rinvio agli accordi collettivi stipulati dalle Federazioni Sportive Nazionali, dalle discipline sportive associate e dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, sul piano nazionale, delle categorie di lavoratori sportivi interessate, per l’individuazione di indici delle fattispecie utili ai fini del procedimento di certificazione dei contratti di lavoro; in mancanza, saranno utilizzati indici individuati con apposito DPCM.

Il decreto fa comunque salva l’applicazione dell’art. 2, c. 1, del dlgs n. 81/2015, che vuole applicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato ai rapporti di collaborazione che si concretizzano unicamente in prestazioni di lavoro personali, continuative, le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente.

Da ultimo, il c. 5 stabilisce che, per quanto compatibili e per quanto non diversamente disciplinato dal decreto, si applicano le disposizioni sui rapporti di lavoro nell’impresa, incluse quelle di carattere previdenziale e tributario.

Contrattualmente, l’art. 26 del decreto fa spazio a regole generali sul rapporto di lavoro sportivo subordinato, senza effettuare distinguo tra settore professionistico e dilettantistico.

Ad esso non sono applicabili gli artt. 4, 5, 13, 18 dello Statuto dei lavoratori. Neppure le norme sui licenziamenti individuali di cui agli artt. 1, 2, 3, 5, 6, 7, 8 della legge n. 604/1966 e 2, 4, 5 della legge n. 108/1990.

Infine, non è applicabile l’impianto del dlgs n. 23/2015 circa il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti.

Dal che ricaviamo che continua a non applicarsi al lavoro subordinato sportivo la (pur ostica) normativa sui licenziamenti.

La sopravvenienza della legge del ‘90 alla legge sul lavoro sportivo dell’81, sembra abbia comportato l’estensione al lavoro sportivo della tutela reale prevista contro il licenziamento discriminatorio, al pari di tutti gli altri lavoratori subordinati, quindi anche la possibilità del reintegro sul posto di lavoro. Ma è un orientamento, non il frutto di pronunce. Una soluzione che, tuttavia, può non conciliarsi con l’espressa esclusione dell’applicazione al lavoro sportivo dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, riprodotta nel decreto legislativo n. 36/2021.

In definitiva, la specialità rinvenibile nel lavoro sportivo che ha determinato l’inapplicabilità delle norme in materia di licenziamento è plausibile debba valere per l’ipotesi del licenziamento discriminatorio, al quale può far seguito la sola richiesta di risarcimento dei danni (art. 8 della legge 604/1966).

D’altra parte, la soluzione opposta – della non estensibilità al lavoro sportivo della tutela contro il licenziamento discriminatorio – urterebbe contro la esplicita dichiarazione di non applicabilità dell’art. 18 e della tutela reale attraverso la reintegrazione nel posto di lavoro che esso assicura.

Passando oltre, il decreto del 2021 conferma l’inapplicabilità dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori in materia di sanzioni disciplinari, con riguardo a quelle irrogate dalle Federazioni Sportive Nazionali, dalle discipline sportive associate, dagli enti di promozione sportiva. Tale norma è applicabile solo alle sanzioni disposte dagli enti sportivi per violazione degli obblighi discendenti dal contratto di lavoro.

Il rapporto di lavoro tra la società (o associazione) sportiva e lo sportivo professionista può essere a termine, per un periodo non superiore a cinque anni, ma può essere rinnovato come anche ceduto prima della scadenza, se l’altra parte vi consente e con le modalità fissate dalle F.S.N.

Al contratto di lavoro sportivo subordinato non si applicano (art. 26, c. 2) le norme sul lavoro a tempo determinato (dlgs n. 81/2015).

Ancora: nel contratto (questa è una conferma delle prime norme in materia), non possono essere previste clausole di non concorrenza o limitative della libertà professionale dello sportivo.

Il lavoro sportivo può essere svolto in collaborazione coordinata e continuativa (art.  409, c.1, n. 3, del c.p.c.) ma è fatta salva l’applicazione dell’art. 2, c. 1, del decreto legislativo 81/2015, per cui se esso si concretizza in prestazione di lavoro prevalentemente personale, continuativo, con modalità di esecuzione organizzate dal solo committente, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.

Dal 1° luglio 2022 sarà abrogato l’art. 2, c. 2, l. d), del decreto legislativo 81/2015, che non riconosce la sussistenza del lavoro subordinato alle collaborazioni rese ai fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle Federazioni Sportive Nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I.

In luogo, il c. 4 dell’art. 25 consente che l’attività di lavoro sportivo sia oggetto di prestazioni occasionali quando le stesse danno luogo, nel corso di un anno civile:

  1. a) per ciascun prestatore, con riferimento alla totalità degli utilizzatori, a compensi di importo non superiore a 5.000 euro;
  2. b) per ciascun utilizzatore, con riferimento alla totalità dei prestatori, a compensi di importo non superiore a 5.000 euro;
  3. c) per le prestazioni complessivamente rese da ogni prestatore in favore del medesimo utilizzatore, a compensi di importo non superiore a 2.500 euro.

Il rapporto di lavoro nel settore professionistico

Come la vecchia norma, relativamente all’attività prestata dall’atleta a titolo oneroso, anche la nuova individua in via generale la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato per il lavoro prestato dall’atleta come attività principale o prevalente, in modo continuativo, nei settori professionistici (art. 27, 2°comma).

Schematicamente, tre situazioni previste dal 3° comma dell’art. 27 configurano l’attività sportiva prestata dall’atleta come lavoro autonomo:

  • quando l’attività richiesta si svolge nell’ambito di una singola manifestazione sportiva o più manifestazioni ma tra loro collegate in un breve periodo di tempo;
  • se il contratto non prevede vincoli circa la partecipazione a sedute di preparazione o allenamento;
  • se la prestazione resa, pur avendo carattere continuativo, non superi complessivamente otto ore in una settimana o cinque giorni in un mese o trenta giorni in un anno.

Concludendo l’analisi delle novità dettate dall’attuale decreto, è bene soffermarsi sulla circostanza legislativa che il rapporto di lavoro nei settori professionistici si costituisce con assunzione diretta e stipula di un contratto che richiede la forma scritta, pena la nullità (art. 27, c.4), e dev’essere redatto secondo uno schema tipo predisposto dai soggetti chiamati alla stipula degli Accordi Collettivi delle categorie di lavoratori interessate, che non può essere derogato in pejus.

Roberto Nesti

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Evoluzione normativa sulla responsabilità solidale del committente nei contratti di appalto

Il Contratto di appalto

Evoluzione normativa sulla responsabilità solidale del committente nei contratti di appalto

Nuovi obblighi in capo al committente a pena di sanzioni amministrative

La disciplina sulla responsabilità solidale del committente nei contratti di appalto è stata, negli anni, oggetto di numerose correzioni. Ad interventi restrittivi si sono alternati interventi estensivi in un balletto tutto teso a definire l’esatto perimetro della responsabilità dell’appaltatore per i trattamenti retributivi e contributivi dei lavoratori che prestano la loro opera.

Ultimo riferimento temporale di legge è il dl n. 25/2017, col quale le norme sono state modificate sotto il segno della negazione della possibilità, per i Ccnl sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative del settore, di prevedere metodi e procedure alternativi di verifica della regolarità degli appalti in relazione alla previsione di una responsabilità del committente.

La prima riflessione che qui intendiamo offrire è che tale negazione ha di fatto impedito la deroga alla regola della responsabilità solidale ex art. 29 d. lgs. n. 276/2003, che consentiva alla norma contrattual-collettiva di escludere il regime generale della responsabilità solidale del committente, a fronte dell’individuazione da parte delle Parti Sociali di procedure di controllo per l’appunto alternative; deroga che, tuttavia, non è stata molto praticata.

Fatto sta che da marzo 2017 le norme di origine contrattuale limitanti od escludenti la responsabilità solidale del committente vanno considerate nulle per contrasto a norma di legge imperativa.

Una seconda riflessione sull’ultima norma regolatrice del contratto di appalto è che essa ha anche fatto cessare la possibilità, concessa fino ad allora al committente, di eccepire il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore. Vale a dire: prima dell’intervento di legge, il committente – che doveva convenire in giudizio assieme all’appaltatore – poteva eccepire il beneficio della preventiva escussione del patrimonio di quegli o dei subappaltatori (conseguentemente, i lavoratori o gli enti previdenziali ed assicurativi dovevano tentare di escutere prima di tutto il patrimonio dell’appaltatore/subappaltatore; se si rivelava pratica infruttuosa, il patrimonio del committente).

Oggi, è possibile rifarsi agendo in giudizio direttamente verso il committente, chiedendogli il pagamento di quanto loro dovuto dall’appaltatore (che in genere offre garanzie di solvibilità minori), ovvero i trattamenti retributivi (ivi comprese le quote di TFR), i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto.

Va da sé che resta in capo al committente la possibilità, se ha corrisposto quanto dovuto in luogo dell’appaltatore, di agire secondo legge in via di regresso nei suoi riguardi.

In definitiva, torna in auge il principio che la legge Biagi (d. lgs. n. 276/2003) ha introdotto nel nostro ordinamento; principio per cui, in ipotesi di appalto di opere o di servizi, il committente è obbligato in solido con l’appaltatore (e con gli eventuali subappaltatori), entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi (anche le quote di TFR maturato), i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto.

Ora, se la norma precisa che il committente risponde solidalmente dei predetti trattamenti spettanti ai lavoratori dell’appaltatore, da ciò deriva che dal perimetro della responsabilità dovrebbero restare escluse le voci non strettamente retributive (perché indennitarie e/o risarcitorie a vario titolo).

In questo più o meno chiaro quadro normativo inseriamo la norma in vigore dal 1° gennaio 2020: l’articolo 4 del dl n. 124/2019 (che ha introdotto il nuovo art. 17 bis nel corpo del D.Lgs. n. 241/1997), il quale dispone – su ritenute e compensazioni in appalti e subappalti e sull’estensione del reverse charge per il contrasto alla somministrazione illecita di manodopera – che i soggetti che affidano il compimento di opere o servizi di importo annuo pari a 200.000 euro ad un’impresa tramite contratto di appalto, subappalto, affidamento a soggetti consorziati (o rapporti negoziali comunque denominati caratterizzati da prevalente impiego di manodopera presso le sedi di attività del committente con l’utilizzo di beni strumentali di proprietà di quest’ultimo o ad esso riconducibili in qualunque forma) sono tenuti a richiedere all’impresa appaltatrice o affidataria e alle imprese subappaltatrici, obbligate a rilasciarle, copia delle deleghe di pagamento relative al versamento delle ritenute, trattenute dall’impresa appaltatrice o affidataria e dalle imprese subappaltatrici ai lavoratori direttamente impiegati nell’esecuzione dell’opera o del servizio. Il versamento delle ritenute è effettuato dall’impresa appaltatrice o affidataria e dall’impresa subappaltatrice, con distinte deleghe per ciascun committente, senza possibilità di compensazione che opera con riguardo a tutti i contributi e i premi assicurativi maturati, nel corso della durata del contratto, sulle retribuzioni erogate.

Le deleghe di cui sopra, accompagnate da un elenco nominativo dei lavoratori direttamente impiegati nel mese precedente, identificati tramite cf – con il dettaglio delle ore di lavoro prestate in esecuzione dell’opera o del servizio affidato, l’ammontare della retribuzione corrisposta al dipendente collegata a tale prestazione e il dettaglio delle ritenute fiscali eseguite nel mese precedente nei confronti di tale lavoratore, con separata indicazione di quelle relative alla prestazione affidata dal committente – dovranno essere trasmesse, entro cinque giorni lavorativi dalla scadenza del versamento, dall’impresa appaltatrice o affidataria e dalle imprese subappaltatrici, di modo che il committente abbia effettivo riscontro dell’ammontare complessivo degli importi da esse versati.

Se, maturato il diritto a ricevere corrispettivi dall’impresa (appaltatrice o affidataria), questa (o le imprese subappaltatrici) non ha adempiuto all’obbligo della trasmissione delle deleghe, ovvero risulta l’omesso od insufficiente versamento delle ritenute fiscali, il committente dovrà sospendere il pagamento dei corrispettivi maturati dall’impresa, fino a concorrenza del 20 per cento del valore complessivo dell’opera o del servizio, ovvero per un importo pari all’ammontare delle ritenute non versate, finché perdura l’inadempimento. Di ciò dovrà dare comunicazione all’Agenzia delle Entrate entro novanta giorni.

Attenzione, però, che in questi casi all’impresa appaltatrice o affidataria è preclusa ogni azione esecutiva finalizzata al soddisfacimento del credito il cui pagamento sia stato sospeso, fino a quando non sia stato eseguito il versamento delle ritenute.

Non ottemperare alle previsioni di legge ora descritte comporta, per il committente, il pagamento di una somma corrispondente alla sanzione irrogata all’impresa, per violazione degli obblighi di corretta determinazione delle ritenute e di corretta esecuzione di esse, nonché di tempestivo versamento.

Purtuttavia, qualora le imprese appaltatrici o affidatarie o subappaltatrici comunichino al committente la sussistenza, nell’ultimo giorno del mese che precede quello della scadenza, di determinati requisiti, allegandone certificazione (messa a disposizione dalle Entrate, con validità quattro mesi dal rilascio), i sopra descritti obblighi non troveranno applicazione.

Si tratta, in sostanza, della presenza di tali requisiti dell’impresa: deve risultare in attività da almeno tre anni, essere in regola con gli obblighi dichiarativi ed aver eseguito nel corso dei periodi d’imposta cui si riferiscono le dichiarazioni dei redditi presentate nell’ultimo triennio complessivi versamenti registrati nel conto fiscale per un importo non inferiore al 10 per cento dell’ammontare dei ricavi o compensi risultanti dalle dichiarazioni medesime; non devono risultare iscrizioni a ruolo o accertamenti esecutivi o avvisi di addebito affidati agli agenti della riscossione relativi alle imposte sui redditi, all’IRAP, alle ritenute e ai contributi previdenziali per importi superiori ad euro 50.000, per i quali i termini di pagamento siano scaduti e siano ancora dovuti pagamenti o non siano in essere provvedimenti di sospensione, eccezion fatta per le somme oggetto di piani di rateazione per i quali non sia intervenuta decadenza.

Un cenno in questo contesto va, infine, fatto sull’intervento dell’INL con nota prot. n. 1037 del 25 novembre 2020, nella quale si specifica che nei casi di appalti “labour intensive” l’accertamento di violazioni circa il versamento delle ritenute fiscali sui percettori di redditi di lavoro dipendente e assimilati non è competenza dell’Ispettorato.

Viene lì richiamato proprio l’articolo 4 del dl n. 124/2019 per precisare che i nuovi obblighi da esso introdotti a carico dei committenti di appalti c.d. “labour intensive” rispondono alla necessità di contrastare il fenomeno dell’omesso o insufficiente versamento, anche mediante l’indebita compensazione, delle ritenute fiscali sui percettori di redditi di lavoro dipendente e assimilati attraverso la creazione di sistemi di controllo posti a carico del committente.

La loro violazione è sanzionata con una somma pecuniaria pari a quella irrogata all’impresa affidataria per la non corretta determinazione ed esecuzione delle ritenute, nonché per il tardivo versamento delle stesse; come precisato, senza possibilità di compensazione.

Il richiamo normativo su tale ultimo aspetto è alla circolare n. 1/E/2020, che ha precisato che “tale somma non è dovuta quando l’impresa appaltatrice o affidataria o subappaltatrice abbia correttamente assolto gli obblighi cui si fa riferimento, ovvero si sia avvalsa dell’istituto del ravvedimento operoso per sanare le violazioni commesse prima della contestazione da parte degli organi preposti al controllo”.

Da ciò proviene che l’illecito a carico del committente si realizza unicamente all’esito di tale ulteriore verifica negativa da parte dei soggetti preposti alla vigilanza fiscale.

Come conseguenza, gli obblighi di controllo del committente è da ritenere siano diretti esclusivamente a rendere effettivi gli adempimenti di natura fiscale posti a carico delle imprese affidatarie; ecco spiegato perché la loro violazione non può essere ascritta tra le violazioni in materia di lavoro e legislazione sociale di competenza dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.

                                                                                                                                                                       Roberto Nesti 

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La calmieratrice è norma di civiltà. L’Inps soccombe alla prima pronuncia di II grado che ne decreta la piena vigenza

immagine 1 per norma calmieratrice

Il principio di proporzionalità a base della c.d. norma calmieratrice prevista dall’articolo 6, comma 10, del decreto-legge n. 338/1989 (legge n. 389/1989), conferisce una misura, un limite, alle sanzioni per irregolarità retributive e contributive. La misura consiste nel rispetto di una proporzione tra l’inadempimento e la perdita del beneficio.

Questo impedisce che piovano addosso agli inadempienti effetti sanzionatori sproporzionati.

E’ accaduto nelle interpretazioni dell’Inps riguardo al datore di lavoro agricolo incorso in irregolarità minime a seguito di procedure ispettive: perdita integrale del beneficio, sanzioni pecuniarie (con interessi) e sanzioni civili.

Non avrebbe dovuto la norma calmieratrice evitare la sproporzione tra lieve omissione e decadenza dalla decontribuzione?

L’Inps ha attribuito ad essa un tempo, considerandola non più vigente. Ed invece, la Corte di Appello di Bari, Sezione Lavoro, ha espresso un principio di tenore opposto: la norma calmieratrice non è mai stata espressamente abrogata, né il quadro regolatore del 1989. Vige ed è applicabile.

Tornando al principio contenuto nella norma, quello della proporzionalità in forza del quale il rapporto causa-effetto tra omissione retributiva o contributiva e perdita dell’agevolazione deve per l’appunto essere proporzionale, l’anomalia della decisione dell’Inps di considerare la norma calmieratrice decaduta e di, conseguentemente, comminare la decadenza dai benefici e il recupero integrale dei contributi non versati, viene corretta per la prima volta da un giudice di secondo grado.

La sentenza impone di riportare sui giusti binari la logica della disposizione, facendo restare contenuta nei limiti della maggior somma fra retribuzione non corrisposta e contribuzione omessa la perdita del beneficio della riduzione del contributo a carico del datore di lavoro.

In buona sostanza, il mancato rispetto delle regole fa perdere i benefici, sì, ma limitatamente: “… la perdita della riduzione non può superare il maggiore importo tra contribuzione omessa e retribuzione non corrisposta”.

L’intervento dell’INPS si spinge, tuttavia, oltre fino a ritenere non applicabile la norma al settore agricolo, nella convinzione che l’ambito applicativo sia limitato ai benefici contributivi di cui all’articolo 6 – con espresso riferimento alle sole ipotesi di fiscalizzazione e di sgravi del Mezzogiorno, non anche all’ulteriore decontribuzione in favore delle aziende agricole site in territori montani e di quelle site in zone agricole svantaggiate e non anche all’ulteriore decontribuzione.

Dal che la sintesi è: 1. La norma calmieratrice non contempla tra i suoi destinatari il settore agricolo; 2. La norma calmieratrice è decaduta.

Lo snodo della questione può derivare dall’azione diretta del Legislatore in direzione di una norma di interpretazione autentica che chiarisca definitivamente la portata applicativa della norma calmieratrice, a fronte della confermata vigenza.

La recente sentenza della Corte d’Appello di Bari, n. 599 del 22 marzo 2021, pubblicata il 21 maggio, ha se non altro fornito una pezza d’appoggio. D’ora in avanti, la norma calmieratrice dovrà essere considerata vigente, quindi pienamente operativa, e verso tutti i settori ivi incluso quello agricolo.

Ed infatti, il pronunciamento ha decretato che “quella posta dall’art. 6, commi 9-13 del D.L. 338/1989 è una sorta di disciplina di carattere generale che fissa le condizioni per fruire di tutte le agevolazioni contributive, sempre richiamata dalla normativa successiva in materia e, comunque, destinata ad applicarsi anche in mancanza di richiamo esplicito”.

A conclusione del presente contributo, giova rammentare che una posizione forte fu assunta dall’ANCL (Associazione Nazionale dei Consulenti del Lavoro), a parere della quale l’articolo 6 è una norma di civiltà che, imponendo di differenziare gli effetti, le conseguenze che derivano dalla gravità dell’inadempimento, riconosce natura sostanzialmente anche sanzionatoria alle norme dell’ordinamento che regolano i benefici contributivi.

                                                                                                                                                                                                                  Roberto Nesti

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