L’illecito compiuto in ambito non contrattuale comporta una responsabilità extracontrattuale derivante da rapporti (anche di lavoro) tra soggetti non precedentemente legati da un vincolo obbligatorio. L’espressione è usata come sinonimo di responsabilità civile, in opposizione a quella contrattuale.
La specifica responsabilità extracontrattuale del lavoratore dev’essere, però, inquadrata nella verifica di violazioni da egli commesse che danno luogo ad una responsabilità, per l’appunto, non contrattuale.
In effetti, il lavoratore è soggetto alla responsabilità contrattuale, che discende dagli specifici obblighi assunti con la stipulazione del contratto di lavoro e che si realizza con l’inadempienza di tali obblighi, come pure può essere soggetto alla responsabilità extracontrattuale, che prescinde dalle statuizioni del contratto di lavoro e che discende da un illecito, penale o amministrativo.
Le due tipologie di responsabilità hanno ognuna il proprio fondamento legislativo. Norme differenti, dunque; in particolare, la responsabilità contrattuale fa riferimento agli artt. 2104 C.c. e seguenti, prevedendo che in capo al lavoratore sia posto il dovere di diligenza, l’obbligo di fedeltà e quello di lealtà; la responsabilità extracontrattuale ha, viceversa, quale riferimento primo l’art. 2043 C.c. – “Risarcimento per fatto illecito” – a norma del quale “Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.”. E’ non altro che il principio conosciuto nel diritto come “neminem laedere”.
Eccoci dunque alla distinzione, benché le due tipologie di responsabilità possano andare di pari passo quando il lavoratore dipendente, adempiendo alle attività lavorative, violi uno degli obblighi incombenti in qualità di lavoratore e, contestualmente, commetta un illecito.
Ad esempio, se nell’esercizio delle mansioni il lavoratore dipendente si appropriasse di somme di danaro affidategli dal datore si renderebbe, sì, responsabile di un illecito contrattuale – rappresentato dalla violazione del dovere di eseguire la prestazione lavorativa nell’osservanza delle regole di correttezza (ex art. 1175 C.c.) e di diligenza (ex art. 2104 C.c.) – epperò, il medesimo comportamento costituirebbe anche un illecito extracontrattuale per aver egli leso il diritto assoluto all’integrità del patrimonio, di cui è titolare il suo datore indipendentemente dal contratto di lavoro.
Un interrogativo opportuno a questo punto della disamina è se possa il datore di lavoro rivalersi sul lavoratore per il danno che ha subìto.
La Corte di Cassazione afferma di sì. Il datore di lavoro è legittimato ad agire in giudizio per il risarcimento del danno sia in via contrattuale, sia in via extracontrattuale. Le due azioni producono diverse logiche processuali, ad esempio in ordine al regime dell’onere probatorio, posto che per la prima tipologia di responsabilità – quella contrattuale – è sufficiente che il datore dimostri l’esigibilità del diritto al corretto adempimento, mentre per la seconda – quella extracontrattuale (o “aquiliana”) – sarà necessario provare anche il nesso di causalità tra il fatto e il danno.
È bene quindi tenere presente che, indipendentemente dalla fonte della specifica responsabilità (che, prima tra tutte, distingue le due tipologie), il datore di lavoro ha diritto ad ottenere il risarcimento quando il lavoratore provoca un danno al suo patrimonio.
Si inserisce in questo contesto la questione dell’addebito della responsabilità extracontrattuale, per il quale è necessaria l’imputabilità. Cioè a dire, il comportamento colpevole è da ricondurre al soggetto fornito di adeguata capacità di intendere e di volere.
Invero, sfogliando di poco oltre il Codice civile, l’art. 2046 recita: “non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non aveva la capacità d’intendere o di volere al momento in cui lo ha commesso, a meno che lo stato d’incapacità derivi da sua colpa”.
Ne discende cosa? Che chi è incapace di autodeterminarsi consapevolmente non può essere sottoposto a sanzione penale (art. 85 C.p.), a responsabilità civile, né imputato per il risarcimento del danno arrecato a terzi.
A chi spetta allora, nella responsabilità extracontrattuale (o aquiliana), l’onere della prova? Ebbene, è chi agisce per ottenere il risarcimento a dover dimostrare non solo i fatti costitutivi della sua pretesa, ma anche il nesso di causalità (“onus probandi incumbit ei qui dicit”, principio giuridico tradizionale che si sostanzia nel porre a carico della parte che allega un fatto a sé favorevole, il dovere di darne prova dell’esistenza).
Ennesimo requisito della responsabilità aquiliana è la colpevolezza, configurabile in tale tipologia di responsabilità distinta negli elementi della colpa e del dolo. Genericamente, senza che l’art. 2043 C.c. definisca le condotte.
Concludendo, in via sinottica le distinzioni tra l’una e l’altra responsabilità, atteso (come fin qui dimostrato) che il lavoratore può incorrere anche in quella extracontrattuale, sono:
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Responsabilità contrattuale
1. Capacità di obbligarsi, cioè di agire.
2. Onere della prova in capo al debitore (che nel rapporto di lavoro sarà il dipendente).
3. Danni risarcibili (in caso di dolo, solo quelli prevedibili nel tempo in cui è sorta l’obbligazione).
4. Prescrizione: termine ordinario di dieci anni.
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Responsabilità extracontrattuale (aquiliana)
1. Capacità naturale, cioè di intendere e di volere.
2. Onere della prova in capo all’attore (colui che pretende il risarcimento, che nel rapporto di lavoro sarà il datore).
3. Danni risarcibili: tutti, quali conseguenza immediata e diretta della condotta dell’agente.
4. Prescrizione: termine di cinque anni.